Gli alberi mi aiutano a tener vivo Pietro nella memoria. Gli alberi ricurvi, gli alberi mossi dal vento, gli alberi massicci e gli alberi odorosi. “Senti l’odore del cipresso?”, mi chiese Pietro un mattino, mentre mi metteva tra le mani una tavola con un gesto brusco. “Il cipresso, anche dopo anni che è stato tagliato, profuma”.
Gli alberi Pietro li sapeva guardare come nessun altro, perché li sentiva vivi e ne intuiva le forme nascoste. Come tagliaboschi ne conosceva utilità e qualità, come artista giocava con le loro forme, immaginandone continue metamorfosi. Così un grande tronco d’olivo ricurvo s’è fatto porta per la sua casa, così da molteplici forme di querce di noci ha saputo ricavare altalene, panche circolari e un vaso di fiori alto come un rinoceronte. Al trave del tetto della sua casa mezza scavata nella roccia, tre anni fa gli è venuta la fantasia di regalare un volto da indiano. “Ho visto quella faccia seguendo le venature del legno” – mi disse allora con semplicità. E io sapevo che era vero, perché lo avevo osservato tante volte lavorare all’arte misteriosa della scultura. L’arte che Pietro più amava, per la capacità che aveva di intuire le forme nascoste nella sostanza della materia. Quando, alcuni anni fa, gli venne la passione della pietra, e faticosamente si cimentava a scolpire una madonna con bambino, di cui non fu mai soddisfatto, mi raccontò che scolpiva tutte le mattine, nell’ora che precedeva l’alba. “E’ l’ora delle intuizioni”, sosteneva. “E poi dopo devo andare a lavorare…”, aggiunse ridendo.
Pietro aveva molti amici ad Amelia che condividevano, più o meno a seconda dei caratteri, le sue scelte radicali di vita, lontano da molte convenzioni. A me, che venivo da fuori colpì subito la sua curiosità e il suo straordinario senso di ospitalità. Aveva un modo di vedere le cose che in America Latina chiamerebbero amplio. Amplio, ecco l’aggettivo con cui desidero ricordarlo! Pietro era un uomo amplio perché capace di accogliere gli altri, Pietro era amplio per il suo modo di guardare e di parlare e di giocare con le cose. Tra gli amici che ho avuto è stato dei più solari e diretti, perché era un uomo aperto, che sapeva guardarsi dall’ombra del pregiudizio, che tanto ci danna nei nostri rapporti con gli altri.
Quando lo andai a trovare la prima volta, molti anni fa, mi accompagnava un amico colombiano. Pietrò si incuriosì di lui, della sua lingua incomprensibile e dei suoi occhi grandi e sporgenti. Alla fine, nella notte, quando stavamo andando via un po’ barcollanti, gli propose di restare a vivere lì con lui. “A fare cosa?”, gli domandai. “Il cane da guardia”, rispose ridendo con la sua voce ridente e cavernosa. “Chi mai si avvicinerebbe qui, a vedere uno che guarda con quegli occhi?”.
Da allora non c’è stato amico che veniva da lontano a cui non abbia desiderato fare incontrare Cucchi. E Cucchi, così lo chiamavamo, ricambiava spesso le sue visite venendo a Cenci quando c’erano ospiti. La sua capacità di stabilire un canale di intesa, quasi una lingua comune, con gente dell’India e dell’Africa, mi ha sempre stupito, tanto che, da cittadino, ad un certo punto ho incominciato a sospettare che gli uomini che vivono in contatto diretto e intimo con la natura, come era certo quello che viveva e sentiva Pietro, avessero una possibilità in più di intendersi tra loro.
Pensai questo anche il giorno in cui venne a farci visita a Cenci e rimase oltre un’ora a giocare con un bambino autistico, nostro ospite in un campo-scuola.
La grazia con cui l’enorme omone giocava con questo ragazzino magro magro, dagli occhi persi nel vuoto, mi è rimasta impressa e fu di insegnamento per me. Credo davvero che, quando si è aperti dentro, con chiunque è possibile tessere un dialogo.
Ecco, di questa apertura sarò sempre grato a Pietro, di cui molti bambini che sono passati a Cenci ricordano con stupore i modi burberi e accoglienti, le sue battute e i suoi proverbi e la sua incredibile casa di legno, misteriosa come la tana di un orco buono.
Pietro del nostro tempo disprezzava la perdita di contatto con la realtà e la vita vera delle cose. “Oggi le persone basta che si siedono dietro a una scrivania e si credono di essere chissà chi, e poi magari non sanno fare niente”, si lamentava, lui che sapeva quanta ricchezza può nascere da un rapporto concreto e materiale con la natura, da un lavoro fatto con fatica e con passione.
Pochi giorni prima di morire, giusto un anno fa, guardandomi stanco dall’amaca dove affondava il suo corpo mi disse: “L’illusione è importante. Senza l’illusione non potremmo vivere…”. Si riferiva ad un discorso sull’arte, che gli era venuto in mente guardando sua figlia che dipingeva per lui.
Ma probabilmente stava parlando di quanto è difficile morire. Un bambino, tornando dal bosco lo scorso autunno ha detto: “Le foglie le ha portate via il vento. Chissà quando ritorneranno dal viaggio”.
(Articolo di Franco Lorenzoni, apparso su Il Banditore di Amelia di settembre 1994, trascritto da Marcello Paolocci)